Tradizione e gastronomia
Il contenuto del libro rispolvera aspetti che oggi appaiono dimenticati: il significato che si dava alla festa nella società contadina; la concezione che il contadino aveva del tempo ordinario e festivo; il rapporto che instaurava con i santi. In quella società la religione permeava le attività quotidiane e stagionali sia che si trattasse del pane da cuocere sia che si apponesse la chiave di volta nelle case sia quando si pigiavano le uve. È naturale che le credenze religiose scandissero il tempo e dettassero gran parte dei discorsi giornalieri, con una serie ininterrotta di proverbi, similitudini, modi di dire, filastrocche e molto altro ancora.
Il calendario liturgico si intrecciava con quello civile o su questo predominava. È significativo che il contadino indicasse non il giorno e il mese, ma il nome del santo, che in quel giorno ricorre, nella maggior parte dei proverbi che, distribuiti giorno per giorno, coprono l’intero arco dell’anno; una piccola enciclopedia orale che scandiva le stagioni, dettando previsioni meteorologiche, tempi di semina e raccolto, tempi di festa e di lavoro.
Con il diffondersi e l’imporsi della società del benessere, si è dimenticato che sagre e fiere si svolgevano soltanto in concomitanza con le feste religiose istituite per celebrare un santo o un evento particolare per la collettività. Alla fiera la famiglia si provvedeva di utensili domestici, attrezzi di lavoro, animali da stalla e da cortile, abbigliamento e altri generi necessari. La festa rappresentava un momento di svago e il sacro si mescolava col profano. In una società industrializzata e laicizzata si è perduto l’aspetto del ‘sacro’, il legame che univa l’uomo della terra alla divinità.
Nel libro in oggetto, sulla base del rapporto esistente tra il contadino e il santo, si cerca di ritrovare tutto quel patrimonio orale e scritto costituito da proverbi, modi di dire, canti e fiabe: un patrimonio tramandato da generazione in generazione non soltanto nel Salento, ma in tutte le province italiane, con le quali si fanno frequenti comparazioni.
Poiché tutto dipendeva dal santo col quale si instaurava un certo grado di familiarità e, addirittura, di intimità, il popolo si permetteva di usare espressioni dal linguaggio confidenziale o di rimproverarlo quando si dimostrava inadempiente alle richieste di una grazia o, perfino, di sostituirlo senza tenere conto di ufficiali e collaudate disposizioni vescovili o papali.
Valga per tutti il seguente esempio. In un’annata particolarmente secca, colpevole di compromettere il raccolto, gli abitanti di Aradeo, non sapendo quale stratagemma usare, misero una sarda salatissima in bocca alla statua del protettore san Nicola, lasciandogliela per tutto il tempo della processione. Con questo gesto estremo gli si voleva fare sentire la stessa implacabile arsura che tormentava la campagna.
In virtù di un’intesa così stretta tra l’uomo e il santo, la popolazione rurale ha costruito un proprio calendario sul quale la ricorrenza del medesimo ricordava l’inizio o la conclusione di un ciclo lavorativo, l’osservanza di un evento agricolo, ipotizzava una previsione meteorologica da tenere in conto o il passaggio da una stagione all’altra: tutto fissato in detti e proverbi di facile assimilazione.
Accanto ai santi ufficiali la fantasia popolare ha creato una serie di santi che non hanno alcun rapporto con le malattie e i riti per guarire. Insomma, sono santi immaginari. Questa parte, in cui si prendono in considerazione le preghiere recitate in latino maccheronico, si sofferma sulle parole pronunciate in modo grottesco e umoristico, dal significato oscuro o illogico che, tuttavia, erano comprensibili a chi le pronunciava e a chi le ascoltava. Ed è l’aspetto che rende la lettura particolarmente accattivante e ilare.